Non basta una frana per spazzare via vite e storie di un paese abbandonato. Ce ne sono tanti in giro per l’Italia del Sud, soprattutto in Calabria. Cavallerizzo è uno di questi. Basta sbirciare nelle case. Resta ancora qualcosa di chi le ha abitate: una televisione ancora posizionata sul suo mobiletto, vecchie copie del settimanale L’Espresso in una cassetta di carta, la legna accatastata vicino al camino. Altrove un pupazzo, un lettino, un armadio con una serie di adesivi: uno del Movimento sociale italiano, Simon Le Bon dei Duran Duran e Tina Turner. In quella stanza dormivano e studiavano un fratello e una sorella. Adesso quei muri sono un piccolo museo degli sfollati.
Chi non ha mai lasciato la sua casa nella piazza centrale del paese è Liliana Bianco. È un’insegnante in pensione. Cresciuta nella vicina città di Cosenza, ha sposato un uomo di Cavallerizzo e qui si è trasferita da giovane. Combatte una battaglia già da diversi anni tra mille difficoltà. Ci crede ancora e lotta perché si torni a parlare di questo paese fantasma, perché le istituzioni rimettano mano a una questione complessa ma vitale per una comunità costretta alla fuga senza ritorno. Circondata da un gruppo di gatti che accudisce con amore, raggiunge il centro della piazza diventata ormai il set di un film western con imposte chiuse, altre divelte, la chiesa di San Giorgio a pochi metri inagibile. Il suo commento è un misto di realismo e disperazione: «Qui sono morti tutti». E indica le case dove vivevano.
Tra una sigaretta e l’altra, lei fuma tantissimo, racconta il senso di impotenza di fronte alle istituzioni inamovibili. Nessuna speranza di riportare in vita questo posto. Ma lei non molla. Fa parte dell’associazione Cavallerizzo Vive, impegnata a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto successo in questo pezzo di Meridione. Un copione già visto in altri posti.
Cavallerizzo (Kajverici) è una frazione di Cerzeto. Siamo in Arbëria, una serie di territori sparsi nelle regioni del Sud e in Sicilia dove si insediarono gli albanesi del condottiero Skanderbeg fuggiti dall’invasione ottomana nel XIV Secolo. Si parla ancora la lingua arbëreshë e le tradizioni resistono per quanto possibile alla completa omologazione e alla globalizzazione in atto da decenni.
Nel dicembre del 2005 qui è successo qualcosa di strano: a notte fonda uno smottamento ha costretto i suoi abitanti a una fuga rocambolesca. Non sarebbero più tornati nelle loro case. Da allora il paese non è sceso a valle come tanti sentenziavano. E solo l’11,5 % del centro abitato era stato interessato dalla frana.
Anche qui, come a L’Aquila, la soluzione più semplice è stata costruire una new town. Un posto senza anima come i non-luoghi dell’antropologo francese Marc Augè. Adesso resta solo Liliana e suo figlio in questo pezzo dimenticato di Sud.